Quaresima 2014
È l'ora del risveglio
Si
avvicina il tempo della quaresima, tempo dei quaranta giorni precedenti
la Pasqua, tempo da viversi come penitenziale, impegnati nel
rinnovamento della conversione, tempo che la Chiesa vive e celebra
dalla metà del IV secolo d.C. La
quaresima – che la Chiesa con audacia chiama 'sacramento' ( annua
quadragesimalis exercitia sacramenti: colletta della I domenica di
Quaresima), cioè realtà che si vive per partecipare al mistero – è un
tempo 'forte', contrassegnato da un intenso impegno spirituale, per
radunare tutte le energie in vista di un mutamento del nostro pensare,
parlare e operare, di un ritorno al Signore dal quale ci allontaniamo,
cedendo costantemente al male che ci seduce.
La prima funzione della quaresima è il risveglio della nostra coscienza: ciascuno di noi è un peccatore, cade ogni giorno
in peccato e perciò deve confessarsi creatura fragile, sovente incapace
di rispondere al Signore vivendo secondo la sua volontà. Il
cristiano non può sentirsi giusto, non può ritenersi sano, altrimenti
si impedisce l’incontro e la comunione con Gesù Cristo il Signore,
venuto per i peccatori e per i malati, non per quanti si reputano non
bisognosi di lui (cf. Mc 2,17 e par.).
Con l’Apostolo il cristiano dovrebbe dire: «Cristo Gesù è venuto nel mondo
per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io» (1Tm 1,15). Ecco,
riconoscere il proprio peccato è il primo passo per vivere la quaresima,
e i padri del deserto a ragione ammonivano: «Chi riconosce il proprio peccato è più grande di chi fa miracoli e risuscita un morto».
Il cammino
quaresimale si incomincia con questa consapevo-lezza, e perciò la
Chiesa prevede il rito dell’imposizione delle ceneri sul capo, con le
parole che ne esprimono il significato: «Sei un uomo che, tratto dalla
terra, ritorna alla terra, dunque convertiti e credi alla buona notizia
del Vangelo di Cristo!». Così si vive un gesto materiale, una parola
assolutamente decisiva per la nostra identità e chiamata.
Di
conseguenza, nei 40 giorni quaresimali si dovrà intensificare l’ascolto
della parola di Dio contenuta nelle sante Scritture e la preghiera; si
dovrà imparare a digiunare per affermare che «l’uomo non vive di solo
pane» (Dt 8,3; Mt 4,4; Lc 4,4); ci si dovrà esercitare alla prossimità
all’altro, a guardare all’altro, a discernere il suo bisogno, a provare
sentimenti di com-passione verso di lui e ad aiutarlo con quello che si è, con la propria presenza innanzitutto, e con quello che si ha.
Per la
quaresima di quest’anno papa Francesco ha inviato, com’è consuetudine,
un messaggio ai cattolici, ispirandosi significativamente a un testo,
anzi a un solo versetto densissimo di cristologia della Seconda lettera
di Paolo ai Corinzi: «Conoscete la grazia
del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per
voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor
8,9). Anche Benedetto XVI nel
messaggio quaresimale del 2008 si era lasciato ispirare dallo stesso
versetto, che è davvero un’affermazione decisiva perché condensa in sé
l’incarnazione del Figlio di Dio, mettendone nel contempo in risalto lo
stile.
Sì, la
fede della Chiesa di Corinto, fondata dall’Apostolo da pochissimi anni,
confessa che Dio si è fatto uomo in Gesù, confessa che Gesù il Cristo,
che era Figlio di Dio, che era Dio, al quale tutto apparteneva –
potenza, eternità, ricchezza, gloria –, si è spogliato di tutte queste
prerogative e si è dunque fatto uomo tra di noi, uomo fragile, mortale,
per essere in mezzo a noi, uno di noi, un figlio di Adamo come noi.
Ecco lo
stile del nostro Dio, non di un qualsiasi Dio. Io amo dire che il nostro
Dio è un «Dio al contrario » perché si rivela nella debolezza, nella
povertà, nell’insuccesso secondo il mondo, nel servire noi anziché
chiedere il nostro servizio. Questo è scandaloso, perché noi abbiamo
l’immagine – che gli uomini sempre fabbricano e rinnovano – di un Dio
potente, che regna, che si impone.
Se il
nostro Dio è un «Dio al contrario» rispetto alle nostre attese mondane,
anche suo Figlio, l’Inviato nel mondo, il Messia, è un «Messia al
contrario». Non è venuto nello splendore, nella gloria, nella
straordinarietà di teofanie che abbagliano, ma nella povertà, nascendo
non a caso in una stalla, come uno che non ha trovato un luogo in cui
venire al mondo neppure in un caravanserraglio (cf. Lc 2,7).
Questo, lo
sappiamo, è «lo scandalo della croce» (Gal 5,11), è ciò che lo stesso
Paolo confessa nella Lettera ai Filippesi, in quell’inno che contiene il
medesimo movimento: dal cielo alla terra, dalla condizione di Dio a
quella mortale, da Signore a schiavo, da Onnipotente a crocifisso in
una morte ignominiosa, «obbediente fino alla morte, e alla morte di
croce» (cf. Fil 2,6-8). Citando il concilio, papa Francesco ricorda:
«Dio in Gesù ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza
d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo» (
Gaudium et spes 22).
È in
questa povertà che Gesù, il Figlio di Dio, ha voluto stare con noi,
essere l’Emanuele, il Dio-con-noi (cf. Is 7,14; Mt 1,23). Questa sua
povertà, che era kénosis, svuotamento, abbassamento, ha permesso a Gesù
la prossimità a noi, il condividere la nostra condizione, e dunque gli
ha permesso di amare nell’empatia e nella simpatia per noi.
E così ci
ha insegnato la via della fiducia, del servizio, dell’«amore fino alla
fine» (cf. Gv 13,1), della compassione e del perdono. Quella povertà
che il Messia ha assunto è diventata per noi una via di ricchezza, certo
non mondana, ma una ricchezza di comunione con Dio stesso e con tutti
gli uomini. In questo messaggio, dunque, papa Francesco non fa soltanto
un’esortazione morale ai cristiani, ma ricorda innanzitutto la fonte di
ogni azione cristiana: la fede.
Dalla
fede, infatti, scaturisce l’autentica carità; è conoscendo veramente
Gesù Cristo che noi possediamo la vita per sempre (cf. Gv 17,3); è
conformandoci a lui nella nostra vita, è vivendo come lui ha vissuto e
con il suo stile che possiamo seguirlo e partecipare al suo Regno.
Questo riguarda ciascuno di noi e riguarda la Chiesa tutta.
Sempre nel
concilio Vaticano II si legge un passo purtroppo poco ricordato, ma
profondamente ispirato alla lettura dell’incarnazione fatta da Paolo:
«Come Cristo ha realizzato la sua opera di redenzione nella povertà e
nelle persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a percorrere la
stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza… e benché
per eseguire la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, la Chiesa
non è fatta per cercare la gloria sulla terra» ( Lumen gentium 8).
Dopo la
confessione della fede, ossia il fondamento teologico, papa Francesco
richiama brevemente la necessaria testimonianza dei cristiani. Come Dio
ha voluto salvare gli uomini con la povertà, così la Chiesa e ogni
cristiano devono percorrere la stessa via, perché la «ricchezza di Dio»
può essere accolta e operare là dove c’è la povertà umana. E dove c’è
la povertà umana – lo constatiamo ogni giorno a partire dalla
conoscenza di noi stessi – là c’è anche la miseria.
La povertà
è la nostra condizione umana fragile e la miseria si insinua in essa
minacciando fortemente l’humanitas , il nostro cammino di
umanizzazione. La povertà è la condizione in cui è possibile conoscere
la beatitudine («Beati voi poveri»: Lc 5,20); la miseria è il degrado
della povertà, è l’alienazione, l’oppressione e la schiavitù che in essa
si può insinuare, contraddicendo la dignità e la vocazione dell’uomo.
Il nostro
Dio, rivelatosi ai figli di Israele con la loro liberazione dalla
schiavitù d’Egitto, è un Dio che «ascoltò il loro lamento, si ricordò
della sua alleanza…, guardò la loro condizione e se ne diede pensiero»
(Es 2,24-25). Così si è rivelato Dio e così noi dobbiamo fare.
Innanzitutto «ascoltare» l’altro, gli altri: ascoltarli nel loro essere
uomini e donne, fratelli e sorelle in umanità.
È decisivo
l’ascolto dell’altro, prima di ogni nostra scelta o comprensione di
lui: là dove c’è un uomo, una donna, io devo mettermi in ascolto. Dopo
l’ascolto dell’altro, il cristiano 'ricorda' che anche lui è stato
ascoltato da Dio, anzi che Dio lo ha preceduto in ogni sua ricerca di
comunione, e dunque deve riconoscere la paternità di Dio che fonda
nella fede la fraternità e la sororità. Ecco allora il «guardare», che
non significa solo vedere, ma avvicinarsi e guardare l’altro negli
occhi, volto contro volto, negando ogni lontananza.
Soprattutto
oggi, immersi come siamo nella comunicazione in tempo reale, ma senza
incontrare nella realtà l’altro, dobbiamo vigilare che la prossimità
sia sempre esercitata come un passo che decidiamo per rendere l’altro
prossimo (cf. Lc 10,36). E infine, quando sappiamo guardare l’altro e
discernere il suo bisogno, la sua sofferenza sempre diversa, quando
riconosciamo la sua singolarità nel patire, allora «ci diamo pensiero»,
ci prendiamo cura di lui, come fa il nostro Dio!
Così
facendo, scopriremo la miseria materiale, il bisogno di cibo, vestito e
casa, presente nell’altro; scopriremo la miseria morale, l’alienazione
al vizio, la degradazione delle persone in cammini di schiavitù, che
spingono uomini e donne sulla via della morte, vittime della storia e
dell’egoismo umano; scopriremo anche la miseria spirituale di chi è
alienato agli idoli, non conosce una vita interiore, non dà senso alla
propria vita.
Il papa
ci invita dunque alla diakonía, parola del Nuovo Testamento che indica
il servizio agli altri. Se il Figlio di Dio si è fatto povero per stare
in mezzo a noi, per essere come noi, si è fatto anche «servo» per
servirci, per piegarsi davanti a noi, per lavarci i piedi (cf. Gv
13,1-15): «Io sto in mezzo a voi come colui che serve » (Lc 22,27), ha
detto Gesù.
Questo il
denso messaggio delle parole di papa Francesco, che così conclude,
citando ancora una volta Paolo: «Sì, noi siamo come afflitti, ma sempre
lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non
possiede nulla e invece possediamo tutto» (2Cor 6,10). Se davvero tutti i
cristiani cattolici, sulla traccia fornita da papa Francesco,
tentassero con risolutezza di vivere questa quaresima, allora la
riforma della Chiesa che tanti aspettano e chiedono a Francesco
potrebbe muovere i primi passi. Ma si smetta di chiedere al papa di
operare lui ciò che riguarda tutti noi e che dovrebbe farci mutare
qualcosa della nostra vita cristiana: dovrebbe farci operare la
conversione, nulla di più, nulla di meno.
Enzo Bianchi
(articolo tratto da www.avvenire.it)
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