13 AGOSTO MEMORIA DI S. MASSIMO IL CONFESSORE
Cari fratelli e
sorelle,
vorrei presentare oggi la figura di uno dei grandi Padri della Chiesa di
Oriente del tempo tardivo. Si tratta di un monaco, san Massimo, che meritò dalla
Tradizione cristiana il titolo di Confessore
per l’intrepido coraggio con cui seppe testimoniare –
“confessare” – anche con la sofferenza l’integrità della sua fede in Gesù
Cristo,
vero Dio e vero uomo, Salvatore
del mondo.
Massimo Nacque in Palestina, la terra del Signore, intorno al 580. Fin da
ragazzo fu avviato alla vita monastica e allo studio delle Scritture,
anche attraverso le opere di Origene, il grande maestro che già nel terzo
secolo era giunto a “fissare” la tradizione esegetica alessandrina.
Da Gerusalemme, Massimo si trasferì a Costantinopoli, e da lì, a causa
delle invasioni barbariche, si rifugiò in Africa. Qui si distinse con
estremo coraggio nella difesa dell’ortodossia. Massimo non accettava
alcuna riduzione dell’umanità di Cristo. Era nata la teoria secondo cui
in Cristo vi sarebbe solo una volontà, quella divina. Per difendere
l’unicità della sua persona, negavano in Lui una vera e propria volontà
umana. E, a prima vista,
potrebbe apparire anche una cosa buona che in Cristo ci sia una sola
volontà. Ma san Massimo capì subito che ciò avrebbe distrutto il mistero
della salvezza, perché una umanità senza volontà, un uomo senza volontà
non è un vero uomo, è un uomo amputato. Quindi l’uomo Gesù Cristo non
sarebbe stato un vero uomo, non avrebbe vissuto il dramma dell’essere umano,
che consiste proprio nella difficoltà di conformare la volontà nostra con
la verità dell’essere. E così san Massimo afferma con grande decisione: la Sacra Scrittura
non ci mostra un uomo amputato, senza volontà, ma un vero uomo completo:
Dio, in Gesù Cristo, ha realmente assunto la totalità dell’essere umano –
ovviamente, eccetto il peccato – quindi anche una volontà umana. E la
cosa, detta così, appare chiara: Cristo o è uomo o non lo è. Se è uomo,
ha anche una volontà umana. Ma nasce il problema: non si finisce così in
una sorta di dualismo? Non si arriva ad affermare due personalità
complete: ragione, volontà, sentimento? Come superare il dualismo,
conservare la completezza dell’essere umano e tuttavia tutelare l’unità
della persona di Cristo, che certo schizofrenico non era? E san Massimo
dimostra che l’uomo trova la sua unità, l’integrazione di se stesso, la
sua totalità, non chiudendosi in se stesso, ma superando se stesso,
uscendo da se stesso. Così, anche in Cristo, uscendo da se stessa, l’umanità
trova in Dio, nel Figlio di Dio, se stessa. Non si deve amputare l’uomo
per spiegare l’Incarnazione; occorre solo capire il dinamismo dell’essere
umano che si realizza solo uscendo da se stesso; solo in Dio troviamo noi
stessi, la nostra totalità e completezza. Così si vede che non l’uomo che
si chiude in sé è uomo completo, ma l’uomo che si apre, che esce da se
stesso, diventa completo e trova se stesso, proprio nel Figlio di Dio
trova la sua vera umanità. Per san Massimo questa visione non rimane una speculazione
filosofica; egli la vede realizzata nella vita concreta di Gesù,
soprattutto nel dramma del Getsemani. In questo dramma dell’agonia di
Gesù, dell’angoscia della morte, della opposizione tra la volontà umana
di non morire e la volontà divina che si offre alla morte, in questo
dramma del Getsemani si realizza tutto il dramma umano, il dramma della
nostra redenzione. San Massimo ci dice, e noi sappiamo che questo è vero:
Adamo (e Adamo siamo noi stessi) pensava che il “no” fosse l’apice della
libertà. Solo chi può dire “no” sarebbe realmente libero; per realizzare
realmente la sua libertà, l’uomo deve dire “no” a Dio; solo così pensa di
essere finalmente se stesso, di essere arrivato al culmine della libertà.
Questa tendenza la portava in se stessa anche la natura umana di Cristo,
ma l’ha superata, perché Gesù ha visto che non il “no” è il massimo della
libertà. Il massimo della libertà è il “sì”, la conformità con la volontà
di Dio. Solo nel “sì” l’uomo diventa realmente se stesso; solo nella
grande apertura del “sì”, nella unificazione della sua volontà con la
volontà divina, l’uomo diventa immensamente aperto, diventa “divino”.
Essere come Dio era il desiderio di Adamo, cioè essere completamente
libero. Ma non è divino, non è completamente libero l’uomo che si chiude
in sé stesso; lo è uscendo da sé, è nel “sì” che diventa libero; e questo
è il dramma del Getsemani: non la mia volontà, ma la tua. Trasferendo la
volontà umana nella volontà divina nasce il vero uomo, è così che siamo
redenti. Questo, in brevi parole, è il punto fondamentale di quanto
voleva dire san Massimo, e vediamo che qui è veramente in questione tutto
l’essere umano; sta qui l’intera questione della nostra vita. San Massimo
aveva già problemi in Africa difendendo questa visione dell’uomo e di
Dio; poi fu chiamato a Roma. Nel 649 prese parte attiva al Concilio
Lateranense, indetto dal Papa Martino I a difesa delle due volontà di
Cristo, contro l’editto dell’imperatore, che – pro bono pacis – proibiva di discutere tale questione. Il Papa
Martino dovette pagare caro il suo coraggio: benché malandato in salute,
venne arrestato e tradotto a Costantinopoli. Processato e condannato a
morte, ottenne la commutazione della pena nel definitivo esilio in Crimea, dove morì
il 16 settembre 655, dopo due lunghi anni di umiliazioni e di tormenti.
Poco tempo più tardi, nel 662, fu la volta di Massimo, che – opponendosi
anche lui all’imperatore – continuava a ripetere: “E’ impossibile
affermare in Cristo una sola volontà!” (cfr PG 91, cc. 268-269). Così, insieme a due suoi
discepoli, entrambi chiamati Anastasio, Massimo fu sottoposto a un
estenuante processo,
benché avesse ormai superato gli ottant’anni di età. Il tribunale dell’imperatore
lo condannò, con l’accusa di eresia, alla crudele mutilazione della
lingua e della mano destra – i due organi mediante i quali, attraverso le
parole e gli scritti, Massimo aveva combattuto l’errata dottrina
dell’unica volontà di Cristo. Infine il santo monaco, così mutilato,
venne esiliato nella Colchide, sul Mar Nero, dove morì, sfinito per le
sofferenze subite, all’età di 82 anni, il 13 agosto dello stesso anno
662.
Parlando della vita di Massimo, abbiamo accennato alla sua opera letteraria
in difesa dell’ortodossia. Mi riferisco in particolare alla Disputa con Pirro, già patriarca
di Costantinopoli: in essa egli riuscì a persuadere l’avversario dei suoi
errori. Con molta onestà, infatti, Pirro concludeva così la Disputa:
“Chiedo scusa per me e per quelli che mi hanno preceduto: per ignoranza
siamo giunti a questi assurdi pensieri e argomentazioni; e prego che si
trovi il modo di cancellare queste assurdità, salvando la memoria di
quelli che hanno errato” (PG
91, c. 352). Ci
sono poi
giunte alcune decine di opere importanti, tra le quali spicca la Mistagoghía, uno degli scritti più
significativi di san Massimo, che raccoglie in sintesi ben strutturata il
suo pensiero teologico.
Quello di san Massimo non è mai un pensiero solo teologico, speculativo,
ripiegato su se stesso, perché ha sempre come punto di approdo la
concreta realtà del
mondo e della sua salvezza. In questo contesto, nel quale ha dovuto
soffrire, non poteva evadere in affermazioni filosofiche solo teoriche;
doveva cercare il senso del vivere, chiedendosi: chi sono io, che cosa è
il mondo? All’uomo, creato a sua immagine e somiglianza, Dio ha affidato
la missione di unificare il cosmo. E come Cristo ha unificato in se
stesso l’essere umano, nell’uomo il Creatore ha unificato il cosmo. Egli
ci ha mostrato come unificare nella comunione di Cristo il cosmo e così
arrivare realmente a un mondo redento. A questa potente visione salvifica
fa riferimento uno dei più grandi teologi del secolo ventesimo, Hans Urs
von Balthasar, che – “rilanciando” la figura di Massimo – definisce il
suo pensiero con l’icastica espressione di Kosmische Liturgie, “liturgia cosmica”. Al centro di
questa
solenne “liturgia” rimane sempre Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo.
L’efficacia della sua azione salvifica, che ha definitivamente unificato
il cosmo, è garantita dal fatto che egli, pur essendo Dio in tutto, è
anche integralmente uomo – compresa anche l’“energia” e la volontà
dell’uomo.
La vita e il pensiero di Massimo restano potentemente illuminati da un
immenso coraggio nel testimoniare l’integrale realtà di Cristo, senza alcuna
riduzione o compromesso. E così appare chi è veramente l’uomo, come
dobbiamo vivere per rispondere alla nostra vocazione. Dobbiamo vivere
uniti a Dio, per essere così uniti a noi stessi e al cosmo, dando al
cosmo stesso e all’umanità la giusta forma. L’universale “sì” di Cristo,
ci mostra anche con chiarezza come dare il collocamento giusto a tutti
gli altri valori. Pensiamo a valori oggi giustamente difesi quali la
tolleranza, la libertà, il dialogo. Ma una tolleranza che non sapesse più
distinguere tra bene e male diventerebbe caotica e autodistruttiva. Così
pure: una libertà che non rispettasse la libertà degli altri e non
trovasse la comune misura delle nostre rispettive libertà, diventerebbe
anarchia e distruggerebbe l’autorità. Il dialogo che non sa più su che
cosa dialogare diventa una chiacchiera vuota. Tutti questi valori sono
grandi e fondamentali, ma possono rimanere veri valori soltanto se hanno
il punto di riferimento che li unisce e dà loro la vera autenticità.
Questo punto di riferimento è la sintesi tra Dio e cosmo, è la
figura di Cristo nella quale impariamo la verità di noi stessi e
impariamo così dove collocare tutti gli altri valori, perché scopriamo il
loro autentico significato. Gesù Cristo è il punto di riferimento che dà
luce a tutti gli altri valori. Questa è il punto di arrivo della
testimonianza di questo grande
Confessore. E così, alla fine, Cristo ci indica che il cosmo deve
divenire liturgia, gloria di Dio e che la adorazione è l’inizio della
vera trasformazione, del vero rinnovamento del mondo.
Perciò vorrei concludere con un brano fondamentale delle opere di san
Massimo: “Noi adoriamo un solo Figlio, insieme con il Padre e con lo
Spirito Santo, come prima dei tempi, così anche ora, e per tutti i tempi,
e per i tempi dopo i tempi. Amen!” (PG
91, c. 269).
Benedetto XVI
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