di INOS BIFFI
Al fatto che l'uomo sia stato creato dall'amore misericordioso, rivelato e offerto in Gesù crocifisso e risorto da morte, non consegue la negazione del peccato, né della giustizia divina nei confronti del peccatore, ma proprio l'opposto.Quanto alla gravità del peccato, l'uomo la può certo avvertire considerando la trasgressione ai comandi divini che essa comporta; tuttavia essa gli appare pienamente, se contempla Cristo che a motivo del peccato pende dalla croce. Nel Figlio di Dio crocifisso ne possiamo trovare la dimensione concreta; è lui a rivelarcela sul Calvario, quando è "consegnato alla morte a causa dei nostri peccati" (Romani, 4, 25). Da Gesù innalzato da terra discende in noi la coscienza della colpa; il suo senso reale è iscritto nella passione del "Servo di Dio": essa è sì contestazione della maestà e della potenza di Dio; offesa della sua gloria e della sua santità; ma non è possibile avvertirne tutta la malizia, finché non ci si ponga di fronte all'estrema donazione di Gesù, che "ci ha amato e ha dato se stesso per noi" (Efesini, 5, 2). Allora il peccato si mostra come una ferita inflitta al cuore di Cristo, il Figlio dell'eterna compiacenza divina (Matteo, 3, 17), nel quale conviene tutta la maestà, la potenza, la gloria e la santità del Padre. Ne era persuaso sant'Ignazio di Loyola, che nella prima settimana degli Esercizi porta l'esercitando a un colloquio col Crocifisso. "Immaginandomi - scrive - di avere davanti nostro Signore posto in croce, chiedergli come mai da Creatore è venuto a farsi uomo, e dall'eterna vita a morte temporale, e a morire così per i miei peccati" (53). La riflessione umana, lasciata a sé, non vi potrà mai riuscire: solo Gesù, "trafitto per le nostre colpe" e "schiacciato per le nostre iniquità" (Isaia, 53, 5), ci può infondere la "conoscenza interna" del peccato (Esercizi, 63), che può essere soltanto un dono della "grazia del Signore". Lui, che fu senza peccato (Ebrei, 4, 15), pendendo dal legno ne sopportò la maledizione (cfr. Galati, 3, 13), lo ha patito in se stesso e ne ha sperimentato tutto l'orrore come oltraggio del Padre e rigetto dello Spirito. Ma se ogni peccato è un rigetto dell'amore del Padre e un ripudio del Crocifisso, il culmine è raggiunto quando consista nel non accogliere il perdono dopo la caduta. Dio ha creato per rivelarsi misericordioso. Diffidare della misericordia significherebbe invalidare l'intenzione di Dio, alterarne il volto e sfigurarne l'immagine; significherebbe vanificare l'intercessione di Gesù, nostro avvocato in cielo (1 Giovanni, 2, 1), disfare e contraddire il disegno di Dio, che ha progettato una umanità composta di figli redenti nel Figlio, formata di prodighi ritornati alla casa del Padre.Ecco perché non c'è colpa maggiore di quella di diffidare della misericordia, quasi che questa non oltrepassi immensamente qualsiasi peccato e la grazia - come dichiara Paolo - non sovrabbondi su ogni delitto (Romani, 5, 20). Scrive Giovanni: "Qualunque cosa [il nostro cuore] ci rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore" (1 Giovanni, 3, 20).Da questo non si deve incipientemente concludere che è negata l'esistenza di un giudizio divino, è dissolta una rigorosa giustizia, ed è scomparso il meritato castigo. Lo professiamo nel Credo: Gesù Cristo "verrà a giudicare i vivi e i morti", mentre Giovanni afferma che "il Padre ha dato al Figlio ogni giudizio" (Giovanni, 5, 22). Solo che il criterio assoluto del giudizio, che non transigerà neppure sulla più leggera offesa fatta al Padre, sarà esattamente l'accoglienza o meno della sua misericordia elargita in Gesù. Verremo giudicati da un Giudice morto per noi e la misericordia rappresenterà il criterio della cernita; quanto al rimorso, sarà quello di averla deliberatamente e ostinatamente contrastata fino all'esaurimento della nostra libertà. Noi, tuttavia, non conosciamo i sentimenti del Giudice crocifisso e dobbiamo fare attenzione a non immaginarli alla stregua delle emozioni che attraversano il nostro spirito, quando emettiamo un giudizio, poiché noi non abbiamo patito come Cristo per quelli che giudichiamo. In realtà non dobbiamo usare il futuro, ma il presente. Ogni nostro atto porta in sé già da adesso il giudizio del Signore, a seconda della sua conformità o difformità da lui. Nello stesso tempo siamo salvati e giudicati. Consequenti, poi, al giudizio di Cristo, sono il premio o il castigo. Il castigo è intrinseco alla colpa. Ma ci dobbiamo guardare dal concepirlo come l'interrompersi della misericordia sostituita da un'impietosa ira divina. Dio non cessa mai di essere perdono. È invece, paradossalmente, l'uomo a ritrarsene e a stabilirsi fuori dallo spazio della pietà del Padre. Se è appropriato parlare di castigo di Dio, è improprio attribuire a lui gli stessi sentimenti che ci animano, quando siamo noi a castigare. Vale ancora che tali sentimenti unicamente Dio li conosce. Non dobbiamo mai dimenticare quello che scrive san Tommaso: "Di Dio conosciamo più quello che non è, che non quello che è" (Summa Theologiae, I, 3, introduzione).Dio punisce anche nel tempo i peccatori? Li castiga anche lungo il corso della storia? Se e quando questo avvenga, lo sa lui: in ogni caso, l'intenzione dei castighi e delle punizioni non può che essere quella del ravvedimento: infatti, "Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva" (Ezechiele, 33, 11). Che cosa, comunque, debba essere definito castigo, quale ne sia la ragione e chi sia castigato è noto esclusivamente al Giudice crocifisso. Al riguardo ogni nostro giudizio è fuori posto e assolutamente avventato e presuntuoso.Se si predica il Vangelo, si deve predicare la giustizia divina, richiamare alla vigilanza, e anche alimentare il timore del giudizio; però ricordando che siamo stati creati e dall'eternità predestinati da un Dio misericordioso, al quale piacciono i banchetti celesti, quando si tratta di festeggiare la conversione di un peccatore.
(©L'Osservatore Romano 10 febbraio 2012)
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